Il Direttore della felicità: Chief Happiness Officer

Le aziende copiano gli Emirati Arabi dove esiste il ministero della felicità

 

È il primo di febbraio del duemiladiciotto e leggo un articolo di Repubblica a firma di Barbara Ardù che parla di questa nuova figura professionale. Geniale! Che bello sarebbe se veramente avesse il potere di mettere al primo posto nelle aziende la felicità!

Come al solito quei mattacchioni degli americani si sono accorti che gestire le aziende con l’arroganza del rampante porta alla alienazione e a risultati di breve periodo. E allora ecco l’invenzione, il coniglio dal cilindro: si inventano il Direttore della Felicità: il Chief Happiness Officer. Il comandante in capo della dopamina in azienda.

Ma attenzione, perché lo scopo per cui è nata questa figura rivela le vere intenzioni di chi l’ha pensata.Il fine ultimo è l’aumento del fatturato e della produttività delle aziende, non di rendere felici le persone.

Tu dirai, ma che male c’è? Comunque il risultato è anche quello di far star bene le persone. Ma purtroppo le emozioni sono intransigenti. In questi ultimi 27 anni di esperienza ho imparato ad ascoltare le emozioni in modo nuovo e a proposito del CHO mi suonano un campanello di allarme.

Apparentemente sembra una strategia win win win win win win…. (mettine quanti ne vuoi che tanto non servono) bellissima, ma emotivamente non lo è.

 

 

Il problema è che l’idea si fonda su di un paradosso. Il messaggio che passa alla parte più antica del cervello è dissonante: si sfrutta il benessere dei lavoratori per farli produrre di più a beneficio dell’utile aziendale. Ma così il soggetto “eroico” della storia è l’azienda; i collaboratori sono di nuovo il mezzo, lo strumento per fare ricco qualcun’altro.

Un fine “artificio” comunicativo che potrebbe addirittura offendere o ingannare i destinatari. Mi ricorda tanto l’aneddoto descritto da Vance Packard nel suo libro “Persuasori Occulti” quando ha spiegato perché in una assicurazione non si riusciva a vendere le polizze sulla vita: in quel caso il protagonista della storia doveva mettere i soldi e morire per il bene dei superstiti; stavolta l’eroe deve divertirsi e produrre di più… e per certi versi è addirittura peggio.

Cioè: l’azienda usa l’utile per creare il benessere, o usa il benessere per creare l’utile?

Sembra una differenza insignificante ma da un punto di vista di persuasione emotiva la distanza tra il fallimento e il successo sta proprio nell’ordine delle parole in queste due frasi.

Se quindi il lavoro del Capo della Felicità non vedrà come beneficiario ultimo la persona e il suo benessere, i risultati potrebbero essere effimeri.

 

 

Mi immagino poi come verrà introdotta questa nuova figura dai consulenti internazionali di scuola americana nel nostro paese.  Speriamo che le aziende italiane decidano di copiare intelligentemente questa moda; ma si sa che chi vive sperando… non muore bene.

In attesa che qualcuno si muova non deleghiamo la nostra felicità a nessuno! Se aspettiamo che qualcun altro pensi a farci felici, siamo fritti.

Ama te stesso, sii felice! – Love yourself, be happy!

E allora, nel frattempo, alla nostra felicità ci pensiamo da soli!

Buone emozioni a tutti

Antonio Meleleo


Un pensiero su “Il Direttore della felicità: Chief Happiness Officer

  1. Giuliana dice:

    Mi scusi ..credo che come tutte le cose possono avere la accezione negativa . Se si pensa ad aiutare le persone ( in azienda o fuori ) a rendersi felici o meglio ad imparare a capire che la felicità non deriva dagli altri ma da se stessi forse imparerebbero a comunicare meglio con tutti per il bene di tutti per relazioni sane ovunque

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